Lamento per una città offesa

di Fernando Loreto

Certo che il mare sa come essere triste nell’inquieto autunno avanzato. Ho visto in questi giorni veleggiare uccelli neri su un mare quasi nero tra cieli neri inesorabili; e alcuni gabbiani, il volo scomposto dal vento d’oriente; e sulla sabbia grigia i rifiuti del mare, relitti senza memoria abbandonati come per caso; ho visto, in uno slargo lì prossimo, il vento inseguire le foglie dei platani sfiniti che, come per ritegno, le lasciano andare una alla volta, quasi avessero vergogna della loro nudità. Sa essere triste il mare,come le reti dei pescatori; sa essere triste questa costa d’autunno, quando il sole si è spento.

Siamo approdati qui, ancora sgomenti, profondamente segnati da quella notte dell’Apocalisse, quando udimmo nelle tenebre l’urlo primigenio erompere terribile dalle viscere della terra ed espandersi nello spazio, e nel tempo e in noi, e tenerci in sua balia: ci gelò persino le parole, che cadevano a terra senza far rumore. Era l’Aprile crudele e noi fummo soli, atterriti, a cercarci nel buio, senza pregare, non c’era nessun Dio; i ragazzi lontani, senza notizie, angosciati per noi. Restammo muti e dolenti a guardare le rovine della nostra vita.

Dies irae, dies illa.

A distanza di tempo, ancora ci resta difficile rammemorare la notte estrema, quando tutto cade in un rumore sordo e cupo d’intorno; quasi una musica mai udita, bella e terribile, come sa essere talvolta bello il terribile al suo inizio; una musica proveniente da luoghi misteriosi dove non abita più nessuno: una musica senza armonia, che ti avvolge e ti alita addosso un sospiro tremulo.

Nella città insonne, vilipesa, oltraggiata oltre ogni dire, sbigottita, parve risuonare, con i suoi toni cupi un requiem doloroso, in quell’inferno di urla, polvere e pianto che si mostrò senza vergogna agli occhi di tutti.

 

Basta. La terra tremò e tremò e ancora tremò, e noi andammo pellegrini per le contrade d’Abruzzo e altrove, quasi dovessimo espiare colpe mai commesse, e la gente non fu cattiva; ci diede accoglienza e rispetto, e, pure senza intuire l’abisso enorme spalancato sotto di noi, non fu cattiva. E avrà per sempre la nostra gratitudine.

 

Venimmo sul mare che era passato appena qualche giorno: la tamerice era già fiorita e roseggiava al sole che sorgeva dal mare; l’aria dolce, come un respiro; abbiamo lasciato il freddo delle nostri notti, gelide talvolta, come un soffio di morte; esse divennero appena un ricordo.

I pensieri invece li portammo con noi: essi sono duri, pesanti, come le pietre della nostra montagna; e come pietre precipitano per le valli impervie e non sanno come fermarsi; rotolano attraverso i nostri percorsi interiori fino ai gangli più riposti della coscienza.

Fummo cioè privati dell’anima. E’ forse possibile vivere senza l’anima?

 

Corre ora il ventesimo mese da quell’orribile notte della primavera maledetta, quando il cielo reclinò sopra di noi e anche le stelle parvero spegnersi.

I ciclamini sono nati in silenzio sulla montagna e neanche quest’anno li ho veduti: mi consolo con il ricordo di quelli che apparivano timidi lungo il sentiero di S. Giuliano, sotto la roverella, prima di attingere la grande croce che guarda il Gran Sasso da lungi, severo nella sua antica solitudine.

Da qui la montagna purtoppo è distante, e gli amici non ci sono più, o sono stanchi. Di talchè, per sentirla, per annusarne l’odore, per provare nelle gambe la fatica e sulle labbra il sudore che sa di sale, il senso quasi mistico della vetta, debbo spingere i ricordi agli anni passati, quando quelle montagne segnarono il nostro apprendistato e la maturità nostra. Esse hanno inciso nel profondo le nostre vite, talvolta anche con il sangue, con i nostri amici, partiti con la passione di sempre nelle mattine serene e gioiose, e tornati nelle sere dolenti dentro il sacco dei soccorritori.

Si può vivere senza di esse? Sì, si può, anzi si deve. Ricordi, Mira? “Da quelle cime che guardano il lago incantato e il bosco sfiorito….” e un nodo sale alla gola.

Con questi frammenti io ho puntellato le mie rovine, dice il poeta; con essi mi addormento la sera, e talvolta trovo ancora la pace.

 

L’altra notte ho fatto un sogno. Sono nella città fantasma, il buio copre pietoso le macerie dell’antica bellezza, ovunque è silenzio; ah, quel silenzio! Pare un vuoto doloroso, l’eco misteriosa di un musica arcana che si aggira ancora tra le macerie; rare ombre paiono muoversi nelle tenebre, non so se sono reali.

La scalinata di S. Bernardino, le nicchie anch’esse oltraggiate, la facciata del tempio bianca e maestosa; poco discosti, i luoghi della nostra fanciullezza irripetibile. D’un tratto un rumore sommesso, simile all’ouverture di un’opera sacra, dapprima distante, quindi più prossima; un soffio che pare arrivare da antiche regioni inesplorate eppure come già sentito. Mi sovvengono le nostre chiese di campagna, all’ora dei vespri, quando le vecchine, vestite di nero, piegate dalla fatica del giorno, confluivano da ogni parte del borgo, biascicando il rosario onde rendere grazie del pane quotidiano.

Resto in ascolto. E’ il passo strascicato di una folla; e una litania come di preghiera, in un procedere mesto, quasi accorato; il passo dimesso, la processione fluisce dal corso verso la Basilica, lenta e nera: in lontananza, appena percepibili, le note del miserere della passione di Cristo che il venerdì santo risuonavano nelle vie buie della città. Miserere di noi, Signore, parce nobis, Domine. Il sussurro si fa via via più chiaro e pare una sacra rappresentazione dell’antico passato della città martire.

Due figure emergono nell’oscurità e mi passano accanto: una donna e una bimba, per mano. La donna è pallida e il suo volto tradisce una passata bellezza, come offesa da patimenti recenti; la bimba, il visino smunto, quasi sofferente, solo i grandi occhi paiono vivi.

Rosalba, mormoro in un soffio. Ella si ferma, è quasi ostile, come di chi si risveglia d’un tratto da un sonno profondo popolato di ombre e di angosce. Ciao, mi dice, dopo aver cercato nella memoria, e Mirella?

Ti chiedo scusa, le dico, non abbiamo avuto il coraggio…..; sai, mancano le parole…che puoi dire a una mamma.

Vedi, mi dice, ogni sera ci diamo convegno e attraversiamo le vie della città vecchia che un tempo fu quella che sai. Sapessi com’è ridotta, non potresti non piangere tu che l’amavi, nei suoi luoghi riposti, negli angoli più belli e appartati. Tutto è crollato in quella notte cattiva, compresi i nostri sogni. Io vengo per accompagnare la mia bambina che ha paura ancora, e la guarda come solo una madre sa guardare i suoi figli. Non c’è rassegnazione in lei, semmai un dolore inespresso che non trova la via; ma è un urlo, lo sento, terribile, disumano direi, di chi non riesce a convivere con un dolore tanto grande. Ci fermiamo un attimo in silenzio a guardare le nere figure che salgono verso il sagrato: gli studenti della Casa e del Convitto, i vecchi, i bambini, Giuliana, il capo coperto da un velo nero, come contrita, ha lo sguardo azzurro di sempre che però non sa più vedere.

Devo andare dice Rosalba, ma i suoi occhi già sono assenti, guardano lontano verso terre desolate che a noi non è dato di scorgere; rientra nella moltitudine orante, come avesse fretta di riprendere il mesto cammino.

Mi sveglio sudato, la gola mi stringe, accendo affannato la luce, Mira per fortuna riposa. Guardo l’orologio ma non ne avevo bisogno: sono le tre e trentadue di una notte qualsiasi, qua sulla costa.

 

Ora, Signore, ti chiedo: come hai potuto togliere i figli alle madri in quei terribili trentasette secondi? Ti eri forse distratto quando la nostra città veniva giù di schianto e l’aquila cessava di volare? Dimmi che non può essere tua la colpa, da bambini ci hanno insegnato che tu eri bontà infinita e noi ci credemmo.

Chissà quante volte dai percorsi del male nel mondo ti è stata rivolta questa domanda: perché? Una domanda che preme, assilla, quasi ossessiona.

Ma tu resti in silenzio e distante. Dicci almeno chi è responsabile della nostra tragedia, perché noi possiamo maledirlo nei secoli.

O, forse, non è responsabile nessuno e i nostri strazi sono frammenti ineludibili del divenire, fatali anomalie dell’esserci in un mondo privo di senso? E la natura, come io credo, è essa stessa innocente, come il vento impetuoso e la pioggia implacabile, nel lento, inesorabile, trascorrere delle stagioni?

Non vedi infatti che resta sereno e senza colpa il profilo delle nostre montagne che fanno corona alla tragica valle: Monte Ocre e il Sirente rugoso, Monte Calvo e il Gran

Sasso, arcigno e muto, ma pur sempre rosa al tramonto; e Roio e S. Giuliano bruciato, e la Maiella madre a guardarci distratta da lungi.

 

Mi dico: eppure esisterà la colpa di qualcuno dinanzi al tribunale della propria coscienza; almeno chi rideva o costruiva le proprie ricchezze sul destino degli altri. Per costoro non potrà esservi pietà, né dinanzi agli uomini né dinanzi a Dio: essi saranno perseguitati in eterno dalle ombre dolenti dei nostri morti.

Ed infatti, mentre la città piangeva, sono entrati in scena il cinismo del potere e la miseria degli uomini: ognuno recita la parte sul palcoscenico delle macerie, dove ti sembra di scorgere la speranza stessa seduta in disparte, che non sa cosa aspettare.

 

I nostri morti. Ma hai visto i cimiteri? Madonna di Roio, tu che siedi sul poggio e dispensi la grazia ai fedeli affaticati dalla via crucis di Tuo Figlio, volgi lo sguardo a Santa Rufina, al suo camposanto, dove sono crollati i muri dei loculi e le bare sono restate all’aperto, senza vergogna.

Non vedi che nelle nostre lunghe notti tra la veglia e il sonno ci pare di scorgerli i nostri morti vagare smarriti nel camposanto, tristi, quasi intimoriti mentre ombre beffarde sembrano danzare sulle tombe in uno scenario ai limiti dell’angoscia!

Non si potevano lasciare in pace almeno i nostri morti? No, le forze della natura restano imperturbabili: i culti, le liturgie, i sentimenti nostri loro non li conoscono e la dignità e il rispetto sono travolti dalle leggi inumane delle urgenze cosmiche.

Siamo andati nel nostro cimitero alla festa dei morti: anche gli accessi erano vietati. Per fortuna per loro essere morti! Immagina per un istante se avessero vissuto la notte tragica e visto la loro città crollare come un castello di carta! Eppure mi viene da chiedere loro: cosa avete sentito in quella notte maledetta, quando tutto parve sgretolarsi ai tremiti della terra e caddero e muri e marmi e lapidi? Avete visto fiammelle di fuoco sprigionarsi dal sottosuolo e non erano i fuochi fatui delle notti estive? Nessuna risposta; se non quella sfuggente dei nostri sogni. Requie e riposo.

 

Noi invece siamo ancora qui: abbiamo i nostri morti, le case devastate, la ricostruzione improbabile. Non rivedremo più le forme amate, le nostre chiese come erano, i vicoli, le antiche piazze, gli eleganti palazzi gentilizi. Chi continuerà a vivere vedrà una città diversa, periferie brutte e tristi, un centro a sorpresa. Però continuiamo a sognare che rientriamo nelle nostre case come in processione, vivi e morti insieme. Ma le nostre case non sono più là, nulla è più al proprio posto, tutto è altrove: come se un dio burlone si fosse divertito a giocare con i nostri agganci alla realtà, e noi restiamo confusi e perplessi.

Ma seppure con lo sguardo velato e tuttora in preda ad un lieve tremore, noi restiamo qua a pretendere risposte, a vedere le forme riemergere dalle macerie, a controllare l’opera degli uomini: in una parola a resistere mentre ci struggiamo nell’attesa dell’incerto correre degli eventi.

 

Mi sovviene il poeta: le primavere hanno bisogno di te per esistere, e vedo una bambina e una madre per mano e una cupa disperazione aleggiare sulle cose.